World Cocktail Day: Ode Alla Miscelazione
Oggi si celebra il giorno in cui tutto è iniziato. Era il 13 maggio del 1806, e sul The Balance and Columbian Repository, un giornalino dello stato di New York, compariva per la prima volta nella storia la definizione della parola cocktail: “Una bevanda rinvigorente composta di qualsiasi distillato, acqua, bitter e zucchero”. Quella che sembra la più essenziale e rudimentale ricetta di Old Fashioned, nasconde in realtà una combinazione di emozioni di rara complessità. Un cocktail, in fondo, oggi come allora è una perfetta metafora della nostra vita.
L’acqua, che grazie alla tenacia e alla visione di Fredric Ice King Tudor è oggi ghiaccio: nella prima metà dell’800, Tudor accettò di indebitarsi e soffrire, pur di inseguire la sua idea e infine arrivare a commercializzare il ghiaccio nel mondo, diventando milionario e permettendo alla miscelazione un fondamentale salto di qualità. L’acqua in un drink è la fluidità del tempo, lo scorrere di mode e gusti che negli anni formano le esperienze. Il cocktail è caposaldo di convivialità, colonna vertebrale di incontri, appiglio di certezze in un mondo che purtroppo o per fortuna, cambia. E che invece di costringere la miscelazione ad adattarsi, molto spesso si adatta alla miscelazione, piegandosi alla forza iconica di classici imperituri.
Il bitter, il giusto amaro di tutti i giorni. Senza paura non esisterebbe coraggio, e la luce servirebbe a poco se non esistesse buio su cui illuminare. Il lato oscuro della luna, che rende la notte perfetta. Sentore pungente, spezia sconosciuta, ingrediente che strizza l’occhio per essere conosciuto più a fondo. Stimolante, medicinale, corroborante, inquieto; e poi nel tempo divenuto iconico, tratto di rilassamento, arma in più contro lo stress del quotidiano. La parte bitter di un cocktail è quello che non ci si aspetta, e di cui poi non si può più fare a meno.
Lo zucchero, la speranza riposta in ogni richiesta al bancone. Sguardo d’intesa, parola non detta, numero scritto sul tovagliolino. Quando è troppa diventa stucchevole, quando manca è subito necessaria: la parte dolce in un drink è il biglietto d’ingresso nell’universo della mixology, l’approccio più naturale alla bevuta di qualità, la fotografia che permette di avvicinarsi alla bellezza e alla profondità del bar. Il trampolino di semplicità da cui si passa per lanciarsi in bevute più complesse, e rendere l’esperienza del drink indimenticabile.
Il distillato, brio e cultura, dal produttore fino all’ultimo sorso. La parte alcolica, quando versata con criterio e sapere, è il piedistallo che sorregge l’intera scultura. Basta una goccia di più per rovinare un capolavoro, una di meno per lasciarlo a un passo dall’essere memorabile. Ogni etichetta ha un’anima, ogni passaggio produttivo è in realtà racconto di chi a quel prodotto dedica la propria vita. Quei sentori, quelle note, quel carattere, a ciascun distillato corrispondono una filosofia e un metodo. E di conseguenza, ciascun drink vive di un’esistenza propria.
Più di duecento anni sono trascorsi dalla prima definizione del termine cocktail. Si sono susseguiti avvenimenti e abitudini, ostacoli o acceleratori della cultura del bere, dal Proibizionismo alla Disco Music. È rimasto indiscutibile l’unico vero ingrediente che rende un drink quello che è, ovvero una porta d’accesso a un momento di benessere. Il bartender è l’artista che dalla tavolozza di distillato, bitter, zucchero e acqua, pennella con la sua sagacia e il suo intuito, interpretando le necessità di chi gli siede di fronte: la giusta temperatura per la cremosità di un Campari Shakerato perfetto, la musicale pressione del sifone nell’Americano, l’equilibrio chimico dei tre elementi del Negroni, la carezzevole acidità del Campari Orange. A ogni dettaglio impercettibile corrispondono in realtà enorme sacrificio, travolgente passione per il prossimo, sana scintilla di follia. E queste cose, forse, saranno sempre impossibili da mettere per iscritto.
Articolo a cura di Carlo Carnevale